La febbre del Nilo, nota anche come West Nile Virus, è un tipo di influenza che infetta l’uomo solo in maniera accidentale. L’Arbovirus che trasmette l’infezione è veicolato dalle punture di zanzare del tipo Culex pipiens e dagli uccelli selvatici, non è un’influenza contagiosa, dunque non c’è rischio di trasmissione da una persona malata a una sana.
In questi giorni si parla di febbre del Nilo in relazione al caso di due persone anziane di 81 e 87 anni colpite dal virus e ricoverate presso il reparto di malattie infettive e tropicali dell’ospedale di Sant’Angelo Lodigiano. I due pazienti non hanno soggiornato all’estero: la zona padana è ricca di zanzare ed è maggiore il rischio che, tra le tante, siano presenti anche le Culex pipiens, principali portatrici del virus.
Sintomi della febbre del Nilo
Nella maggior parte dei casi, l’influenza del Nilo è asintomatica, mentre una minoranza dei pazienti, circa il 20%, lamenta sintomi leggeri che durano da pochi giorni a una settimana, e che sono comuni a una normale influenza, come per esempio mal di testa, febbre, nausea, vomito, linfonodi cutanei.
Altri sintomi più direttamente riconducibili alla febbre del Nilo variano a seconda dell’età della persona infettata: i bambini presentano febbre leggera, i ragazzi febbre alta, occhi arrossati e dolori muscolari, infine gli anziani e le persone debilitate hanno febbre molto alta, stato confusionale, debolezza diffusa, convulsioni e, nei casi avanzati, si arriva a paralisi e coma. È bene sottolineare che la sintomatologia più grave si manifesta in meno dell’1% delle persone colpite dall’Arbovirus, mentre in 1 caso su 1000 la puntura della zanzara Culex portatrice del virus provoca un’encefalite virale. Dopo la puntura, il periodo di incubazione del virus varia da 2 a 14 giorni.
Diagnosi della febbre del Nilo
La diagnosi prevede test di laboratorio Elisa o Immunofluorescenza eseguiti su siero e, a volte, anche su fluido cerebrospinale. Questi test permettono ai medici di effettuare la ricerca di anticorpi del tipo IgM capaci di persistere anche fino a un anno nei soggetti malati, dunque la positività ai test può indicare anche un’infezione pregressa.