Il matrimonio tra consanguinei è sempre esistito, anzi, per secoli è stata l’unica forma di unione accettata per garantire il passaggio di ricchezze e poteri, o l’unica possibile tra gli abitanti di una regione particolarmente isolata.
La medicina, al contrario, ha sempre stigmatizzato il matrimonio tra consanguinei, ritenendolo la causa di importanti malattie genetiche riscontrate nei nascituri. Almeno fino ad oggi: Alan Bittles, un ricercatore australiano della Murdoch University, afferma infatti l’esatto opposto. Nel suo libro “Consanguinity in Context”, Alan Bittles asserisce che l’unione tra consanguinei non solo non è dannoso, ma addirittura fa bene al DNA e dunque al patrimonio genetico.
La fine di un antico tabù? Stando alle recenti ricerche, pare proprio sì. L’intuizione da cui è partito lo studio di Alan Bittles è semplice: i primi gruppi di uomini emigrati dall’Africa si univano in matrimonio tra consanguinei, e se le malattie genetiche non si sono diffuse a tutta l’umanità, il merito va al fenomeno del ‘purging’, in cui i geni difettosi vengono rimossi dal DNA.
Con l’accettazione tout court del matrimonio tra consanguinei, ci sarebbero più possibilità di “ripulire” il DNA dai geni difettosi assicurando una trasmissione genetica più sana.
In attesa di saperne di più a riguardo, che il matrimonio sia o meno tra consanguinei, resta indispensabile prevenire e curare eventuali possibilità di malattie, genetiche e non.
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