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Utero in affitto: quali ripercussioni psicologiche sulla donna?

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Utero in affitto Utero in affitto


Pubblicato il 02/05/2016

Una donna che accetta di portare avanti una maternità surrogata permette l’uso di una parte del proprio corpo, l’utero, per ospitare la gestazione di un bambino da cui si dovrà separare dopo il parto. Sulla questione della cessione di una parte del corpo femminile si sono espressi con pareri decisamente contrari molte donne femministe, altrimenti favorevoli a un uso del corpo e a scelte riguardanti il corpo all’insegna della libertà, e questo per i significati, non solo per la donna, e le ricadute socioculturali che tale pratica assume, oltre alle ripercussioni psicologiche che, invece, proprio per la donna può avere.

 

La cessione di una parte del corpo a pagamento può ridurre il corpo e il bambino a merci di scambio commerciale, oggettivandoli e disumanizzandoli. A ulteriore sostegno nella cultura contemporanea del significato e dell’effetto di riassorbire il corpo della donna nelle logiche del mercato, frammentando ulteriormente l’immagine corporea femminile, e limitando e condizionando le sue scelte.

Una donna può effettivamente subire tale condizionamento, in particolare se in stato di necessità, ma può compiere anche una scelta non obbligata né forzata – come risulta dalle esperienze vissute per ottenere un guadagno destinato magari ad aiutare gli altri suoi figli (come prova un caso accaduto nella clinica Akanksha ad Anand in India e raccontato su “Io donna” del 30 gennaio 2016).

 

Il ricorso alle tecniche di procreazione programmata, può ridurre la dimensione umana del concepimento, fatta di dono e di imprevedibile, della contingenza del rapporto sessuale strettamente legato ai corpi e alla differenza sessuale, all’incontro e al legame d’amore tra un uomo e una donna.  

Il bambino può non essere più visto come dono e oggetto di scambio simbolico e affettivo tra i sessi, ma merce di uno scambio non necessariamente regolato dall’incontro tra esseri sessuati, ma solo tra i prodotti biologici. Può ridurre l’utero a semplice contenitore e la gestazione a semplice ospitalità (Marina Terragni, Io donna) secondo il vecchio schema fondamentale della concezione patriarcale per cui la donna fa un bambino per il maschio, per il capofamiglia, per la società, per la patria; così, la donna era espropriata del proprio ruolo attivo nel rapporto con il prodotto del suo grembo che veniva destinato ad altri.

 

Per una donna, la maternità surrogata può essere un’esperienza artificiale e disumanizzata, un’esperienza priva di significati e affetti con effetti di svalutazione, di non appartenenza e di svuotamento del proprio corpo. Ma la maternità non è riducibile a una pura esperienza corporea, la donna può dotarla di significati e affetti al di là della dimensione corporea. Accanto alla propria e originaria rete di affetti, non si può escludere possa entrare nella rete di affetti e condividere una parte della storia dei futuri genitori del bambino che concepirà, con cui può stabilire un legame significativo anche se solo temporaneo. In fondo come succede nella pratica dell’affido, in cui si è madri e padri a termine.





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