Il termine femminicidio non definisce solo un omicidio declinato al femminile, ma racchiude un concetto più ampio introdotto nel 1992 dalla criminologa americana Diana Russel nel libro Femicide: The Politics of woman killing, scritto insieme a Jill Radford. Lo scopo della criminologa è inquadrare una particolare forma di violenza, di matrice misogina e sessista, perpetrata in generale dal genere maschile contro quello femminile, in particolare un uomo contro una donna, e che si risolve con la morte della donna.
Nell’ambito del movimento femminista globale, il termine femminicidio è collegato a una chiave di lettura socio-criminologica del fenomeno che manifesta nella violenza femminicida la forma estrema e più efferata di violenza degli uomini contro le donne.
La definizione di violenza da parte dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) è “Uso intenzionale della forza fisica o del potere, minacciata o attuata, contro se stessi, un’altra persona, un gruppo, una comunità, che abbia un elevato grado di probabilità di determinare lesioni, morte, danno psicologico, cattivo sviluppo o deprivazioni”.
La definizione evidenzia che l’abuso di potere e la forza fisica sono rilevanti e dannosi sia se agiti sia se minacciati. Significa che si parla di violenza sia in relazione a forti e gravi lesioni che, allo stesso modo, in caso di deprivazioni, effetti nocivi sullo sviluppo e sulle condizioni psicologiche della vittima. Questi effetti si ripercuotono sul piano individuale e sociale.
Il femminicidio, dunque, è spesso l’estrema conseguenza del perpetrarsi di forme di violenza meno drastiche ma al tempo stesso lesive e dannose: molte espressioni di aggressività e abuso, di prevaricazione e maltrattamento, di controllo e dominanza, risultano gravi rispetto agli effetti che hanno sulle vittime, anche quando latenti e non evidenti all’esterno. In questa cornice va inquadrata la violenza di genere, concetto che è definito da:
Un caso tipico di violenza di genere è quello di un uomo che agisce contro una donna attraverso una forma di potere – fisico, psicologico, morale – per ottenerne un vantaggio o il controllo psico-comportamentale.
La violenza è di matrice misogina quando origina da sentimenti di avversione ed insofferenza verso la donna in quanto tale, mentre la violenza è di matrice culturale sessista se giustifica atteggiamenti e azioni che stabiliscono la presunta superiorità del genere maschile e sostengono una impostazione sociale e dei rapporti uomo-donna impari e discriminanti.
Misogina o sessista che sia, alla base della violenza di genere ci sono bisogni abnormi dell’uomo che sente la necessità e il dovere di limitare o impedire la realizzazione della donna nella dimensione affettiva, sociale, economica, ecc. Sul piano intrapsichico, la spinta alla violenza maschile pare finalizzata ad impedire l’attuazione del potenziale femminile, come se ciò costituisca una minaccia all’espressione del valore maschile e della sua realizzazione. In questo senso, la violenza “di” genere si configura come una violenza “contro” il genere femminile.
Secondo l’esperienza clinica, le manifestazioni di violenza di genere prevalgono all’interno di un rapporto di sangue o di una relazione affettiva tra un uomo e una donna. La violenza domestica o Intimate Partner Violence (IPV) è una delle forme di violenza più ricorrenti su scala mondiale ed include tutti i comportamenti di abuso psicologico, sociale, fisico, sessuale ed economico consumati all’interno di una relazione intima o di parentela. Nella maggior parte dei casi, la IPV è esercitata dai maschi nei confronti delle donne, ma accade anche il contrario.
Il fenomeno è oggetto di attenzione e ricerca delle cause, delle conseguenze, dei fattori di rischio e di prevenzione; in questo senso il problema va studiato scientificamente e in ottica multidisciplinare poiché riguarda l’ambito giuridico, sociologico, psicologico, ecc. Una lettura integrata della IPV, inquadrata come questione di salute pubblica, permetterebbe di strutturare un sistema standardizzato di interventi per contenere e gestire in modo efficace le sue manifestazioni, eterogenee e sempre nocive. Purtroppo la visibilità pubblica del problema è ancora molto limitata, anche se oggi c’è un grande interesse da parte dai mass media. Il problema è che sono molto sottostimate la varietà e la frequenza delle sue espressioni che nell’ambito familiare sono all’ordine del giorno più di quanto si creda comunemente.
Paradossalmente, la morte delle donne per mano degli uomini – il femminicidio – è un’efferatezza eclatante e di gravissime proporzioni, ma inferiore alle manifestazioni subdole e taciute della violenza di genere in senso più ampio, manifestazioni che spesso alimentano la spirale di violenza che culmina appunto con l’omicidio delle donne.
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