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Dialisi, per i nefrologi meglio le terapie domiciliari

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In Italia si ricorre alla dialisi domiciliare peritoneale

Dialisi, per i nefrologi meglio le terapie domiciliari Dialisi, per i nefrologi meglio le terapie domiciliari


Scritto da

Corriere della Sera - Franco Marchetti


Pubblicato il 26/07/2011

Modificato il 26/07/2011

Solo un decimo dei circa 50.000 pazienti attualmente in dialisi in Italia ricorre alla dialisi domiciliare peritoneale. Eppure questa tecnica, che per depurare il sangue dalle scorie utilizza un “filtro” naturale, il peritoneo, la membrana che riveste gli organi all’interno dell’addome, potrebbe rappresentare una soluzione per una percentuale molto più alta di malati di reni. Ne sono convinti i nefrologi che sull’argomento, come riporta il Corriere della Sera, hanno promosso il convegno su “La deospedalizzazione del paziente uremico dializzato” e ne sono convinti i pazienti che sanno di poter trovare in questa modalità di dialisi un vantaggio in termini di qualità della vita. Ciò che soprattutto chiedono i pazienti è di poter scegliere in prima persona e in modo informato fra emodialisi e dialisi domiciliare peritoneale.

“Al di là di situazioni particolari dettate da problemi clinici, nella scelta del metodo dialitico il paziente deve poter valutare se andare presso il centro dialisi tre volte alla settimana o optare per una dialisi domiciliare notturna – puntualizza Anna Maria Bernasconi, Presidente ANED, Associazione Nazionale Emodializzati –Dialisi e Trapianto -. Si tratta però di una scelta che il paziente può fare solo se gli sono garantiti completa informazione, persone certe di riferimento e adeguata assistenza in caso di complicanze”.

 

Accanto alla necessità di rispettare il diritto del paziente a scegliere la terapia che meglio risponde alle sue esigenze, la necessità di riservare maggior spazio alla dialisi domiciliare nasce anche da altri fattori: “La popolazione dei pazienti con insufficienza renale terminale destinati a entrare in dialisi si è modificata progressivamente negli ultimi decenni – spiega il presidente del convegno, Luigi Catizone, Direttore dell’UOC di Nefrologia dell’Azienda Ospedaliero-Universitaria di Ferrara-.

In passato il numero dei soggetti in dialisi era relativamente basso ed era rappresentato prevalentemente da giovani; nel corso degli anni l’età media dei pazienti è aumentata (oggi si avvicina ai 70 anni) e sono diventati sempre più numerosi i pazienti “complessi” perché portatori di comorbilità, come le malattie cardiovascolari e il diabete”.

Questo sta producendo un carico che le strutture sanitarie hanno sempre più difficoltà a fronteggiare e a cui proprio la “deospedalizzazione” potrebbe offrire una risposta. «Si fa ancora troppo poca dialisi peritoneale, in particolare al sud – concorda Giuseppe Remuzzi – il fatto di fare la dialisi a casa, la peritoneale o la stessa emodialisi, è ciò verso cui dobbiamo tendere, sia perché quando l’ammalato è responsabilizzato e si cura da solo la cose vanno meglio, sia per utilizzare meglio le risorse limitate del servizio sanitario. Bisogna però ricordare che il peritoneo non è nato per fare la dialisi e che quindi il limite di questa tecnica è rappresentato dal fatto che si può fare per un certo numero di anni dopo di che il peritoneo tende a esaurire la capacità di dializzare. Va quindi utilizzata all’interno di un progetto integrato per esempio in un giovane in cui si prevede di effettuare il trapianto entro un paio d’anni”.

 

In Italia il numero di nuovi pazienti che arrivano ogni anno alla dialisi è di circa 150-160 per milione di abitanti. «Un numero che ci colloca fra le nazioni migliori – sottolinea Antonio Santoro, Direttore dell’Unità Operativa di Nefrologia, Dialisi e Ipertensione dell'Azienda Ospedaliera S. Orsola – Malpighi di Bologna -; ci sono infatti Paesi, come Taiwan e gli stessi USA, in cui i pazienti che arrivano alla dialisi superano i 300 per milione di abitanti. Noi ci collochiamo a metà della classifica, ma bisogna tenere conto che dietro di noi ci sono le nazioni in via di sviluppo che hanno numeri minori perché non mettono in dialisi tutti i pazienti».

Accanto alla maggior diffusione in quei Paesi di malattie che possono condurre all’insufficienza renale terminale, come il diabete e altre malattie metaboliche, queste differenze si spiegano anche con la diversa organizzazione sanitaria che, per esempio negli Usa, non facilita interventi di prevenzione che da noi sono invece promossi dalla sanità pubblica. Negli ultimi anni si è per esempio registrato un calo del numero di pazienti che arrivano alla dialisi in Emilia Romagna proprio grazie all’introduzione di un programma di prevenzione e diagnosi precoce delle malattie renali.

«Da circa 5 anni abbiamo in atto un programma, il PIRP (Prevenzione dell’Insufficienza Renale Progressiva), voluto e finanziato dalla regione, che vede il coinvolgimento di tutte le nefrologie che si sono consociate per cercare di intercettare i pazienti con insufficienza renale alle fasi iniziali - spiega Santoro -. Grazie alla collaborazione dei medici di medicina generale vengono sottoposti a screening (con l’esecuzione di 2 semplici esami, quello delle urine e il dosaggio della creatinina)  i probabili candidati a un’insufficienza renale, vale a dire gli anziani, gli ipertesi, i cardiopatici, i diabetici”. I  casi individuati possono esser poi seguiti, in funzione della severità, dal medico di medicina generale, da solo o in collaborazione con il centro di nefrologia, o nei casi più gravi, direttamente dalla struttura nefrologica.



Fonti:

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